LA VITA SOSPESA TRA MILANO E LA “ZONA ROSSA”

Al tempo del coronavirus, una testimonianza

di Gioele Anni* – Sono giorni sospesi a mezz’aria, surreali, in cui sentiamo la mancanza delle piccole cose che danno senso al nostro vivere. Incontrarsi, stringersi la mano o abbracciarsi, guardare una partita di calcio in compagnia, fare visita a un parente anziano o a una persona cara.

Nelle ultime due settimane, l’emergenza coronavirus ha ridisegnato le vite di chi vive in Lombardia. Una nuova quotidianità comincia a prendere forma. Non sappiamo quanto a lungo durerà l’emergenza e questo alimenta il senso di stallo.

Sono residente in uno dei comuni della zona rossa, Bertonico, dove per fortuna i casi di contagio sono pochissimi. Vivo però a Milano, dove mi trovavo quando le misure di isolamento sono state istituite. Ero tornato al paese nel week-end del 16 febbraio: per questo, nei primi giorni dell’emergenza, ho vissuto in “auto-quarantena” insieme a mia sorella, che come me si è stabilita nel capoluogo lombardo per motivi di lavoro. Passati i 14 giorni di isolamento abbiamo ripreso a uscire di casa.

Da due settimane non possiamo vedere i nostri famigliari, genitori e nonni. Stanno bene, anche se la situazione nel basso lodigiano comincia a essere pesante. I posti di blocco non permettono di avvicinarsi, i militari fanno da tramite se si vuole scambiare qualche oggetto con le persone rimaste “dentro”. Dalla zona rossa escono mezza torta alle mele e dei libri, ma non possiamo nemmeno salutarci a distanza.

Milano invece sembra mezza addormentata, come nemmeno nelle giornate di agosto. Quello che colpisce è il silenzio. Poco traffico, anche nelle ore di punta. Poche persone davanti ai locali, niente gruppi di studenti nei parchi. La metropolitana semivuota, nessuno si accalca, sui sedili, si trova posto. In giro poche mascherine, chi le indossa ha lineamenti stranieri. «La metto perché altrimenti gli italiani mi guardano male», ha raccontato alla radio una ragazza cinese. Una forma di protezione non dal virus, ma dal sospetto.

Le chiese sono chiuse e anche la vita di fede è cambiata. Il parroco del mio paese invia sulla chat di Whatsapp brevi riflessioni sul Vangelo del giorno. Alcuni sacerdoti della zona rossa si organizzano per trasmettere le celebrazioni in streaming: le ultime tre messe le abbiamo seguite dal divano, provando a sentirci comunità senza vederci di persona.

La mente, comunque, torna sempre a casa. Agli anziani e alle persone deboli, più esposte al virus. A chi è ricoverato in ospedale e non può ricevere visite. È angosciante pensare a chi se ne è andato silenziosamente, assistito solo da medici e infermieri. Nemmeno i funerali sono celebrati, anche il dolore rimane muto, privato, senza la consolazione della condivisione.

Ormai stiamo iniziando a conoscere questo coronavirus. Sappiamo che molti di noi, se anche fossero contagiati, ne uscirebbero senza troppi problemi. Ci fa paura l’esposizione di chi è fragile, ci fa paura la tenuta del sistema sanitario. Le cose non si sistemeranno in breve tempo. Dovremo trovare un nuovo equilibrio, far convivere le precauzioni con la tutela di tutte le attività, dall’istruzione al commercio. Dovremo trovare il modo di continuare a fare quelle piccole azioni che danno senso al nostro vivere. La nostra società che andava a mille all’ora si è scoperta d’un tratto disarmata. Dovremo rallentare e riappropriarci del tempo e degli affetti: forse un valore che potremo portare con noi quando tutto tornerà alla normalità.

*Giornalista e Consigliere nazionale dell’Ac

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