Tre questioni, un’unica visione

Lavoro, cambiamento demografico e sfida educativa

Di certo tre temi di cronaca nazionale, ma soprattutto tre questioni sempre urgenti da affrontare, sia dal punto di vista culturale e sociale che da quello più strettamente politico: lavoro, cambiamento demografico e sfida educativa. Ad unirli: l’esigenza di tessere alleanze educative che appaiono sempre più necessarie se si vuole governare le trasformazioni epocali che investono la società italiana, priva di un adeguato cambio generazionale e schiacciata dalla crisi del sistema Paese che investe il tessuto relazionale ancor prima e più di quello economico.

 

Per quel che riguarda il lavoro, il riconoscimento della sua centralità con cui si apre la Costituzione – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» (art. 1) – si scontra con il profondo malessere che affligge soprattutto le generazioni più giovani e le donne; alle prese con la scarsità endemica di lavoro, la mancanza di seri percorsi di formazione professionale, la diffusione di lavori in nero, precari e mal pagati, la scarsità di apprendisti per il nostro lavoro artigiano, forse il patrimonio economico e culturale più grande del paese, il contrasto sempre più evidente tra i tempi del lavoro e i tempi della famiglia, un contesto istituzionale, giuridico e infrastrutturale spesso fatiscente e, non meno importante, una progressiva perdita di senso del lavoro in quanto tale. A tal proposito, vale la pena ricordare che il lavoro è strumento straordinariamente efficace per la formazione sia dei singoli che di un contesto caratterizzato da relazioni sociali degne dell’uomo. Nel lavoro, infatti, l’uomo è parte di un tutto organico che deve condurlo certo a soddisfare i suoi bisogni, ma anche al di sopra di se stesso, verso il bene comune e verso una maggiore ricchezza interiore.

 

Il lavoro che manca, il lavoro precarizzato, porta con sé l’accentuarsi della frattura tra i giovani e le generazioni più anziane. I fattori che caratterizzano l’arrancante Italia dei nostri giorni risentono infatti dell’invecchiamento della popolazione, del processo di riconversione dell’apparato produttivo, della crisi dell’immobiliare e di altri consistenti reparti. La tendenza a diminuire il numero dei dipendenti pubblici, poi, si ripercuote soprattutto sulla pubblica amministrazione e sulla scuola, con il rischio – in quest’ultimo settore – di generare un circolo vizioso, finendo cioè per ridurre le voci di spesa proprio nei campi che maggiormente incidono sulla crescita economica futura.

 

Fra le criticità che più colpiscono, si segnala la sempre più frequente mancata corrispondenza tra il titolo di studio conseguito e la professione esercitata. Nel corso degli ultimi decenni, inoltre, è cambiato il modello di partecipazione delle donne al mercato del lavoro: una presenza che ha conosciuto un deciso sviluppo, pur restando complessivamente modesta se confrontata con quella di altri paesi europei. Un ulteriore segmento di debolezza riguarda l’occupazione giovanile. In proposito, nonostante gli interventi introdotti a loro favore negli ultimi anni, a partire dalla riforma dell’apprendistato.

 

Su cosa puntare? La modernità della piccola impresa, nonostante le dinamiche della globalizzazione, e la riscoperta del lavoro artigiano, insieme alla ricchezza del patrimonio artistico e culturale, sono elementi su cui investire, senza tralasciare la ricerca scientifica e il lavoro intellettuale, rispetto ai quali l’Italia vanta delle autentiche eccellenze.

 

Si tratta, allora, di “liberare il mercato del lavoro” con misure di ampio respiro, contratti di tipo relazionale, incremento della produttività. Serve quindi “più formazione”, mediante un collegamento stabile tra scuola e mondo del lavoro e la diffusione di un apprendistato di alta formazione. A tutto ciò si lega una nuova idea di produttività, misurata in termini non solamente quantitativi, e una rinnovata cultura del lavoro e del merito.

 

Nell’era della globalizzazione, tornato ad essere una grande questione sociale, il lavoro sta scomparendo, come da alcune parti si segnala? No, ma chiede una nuova visione: le economie post-moderne che si stanno delineando avranno successo se l’organizzazione del lavoro sarà fatta su misura della persona. E il lavoro a dimensione umana è quello che si assume le responsabilità sociali verso la comunità locale in cui opera, verso la famiglia di chi lavora, che è attento alla personalizzazione della produzione, della distribuzione e del consumo.

 

Il lavoro è umano perché opera attraverso le relazioni sociali e con le relazioni sociali, sia di chi lavora sia di chi fruisce dei frutti del lavoro. Il lavoro privato della sua dimensione relazionale, il lavoro disumanizzato può anche arricchire una o più singole imprese, ma di certo finisce con l’impoverire le comunità sino a minarne le fondamenta e a depredarne il futuro.

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